Varcare la soglia insieme
Valeria Cescato

È stato sdraiato a sfinge, con le anche disarticolate, la spina dorsale puntuta come la schiena di un drago, le scapole evidenti, tendeva il collo e la testa in avanti come una tartaruga, volgeva lo sguardo a destra e a sinistra ma non sembrava vedere cose di questo mondo. È stata una lunga notte. La mattina una parvenza di pace, di maggior tranquillità ma era evidente che ci stavamo davvero avvicinando alla fine.

Nell’ultimo anno ne avevamo parlato spesso, io e il mio cane, su come sarebbero potute andare le cose. E gli chiesi apertamente di non portarmi a dover essere io a decidere, a scegliere. Gli promisi di stare con lui, di soddisfare ogni sua richiesta e rimanere a sua disposizione, ma gli chiesi di fare presto quando sarebbe stato il momento. In fondo andava tutto bene, io ce la potevo fare e lui non aveva nulla da temere. Non c’era nulla di cui né io né lui dovessimo avere paura.

Il veterinario, pur con tutta l’amorevolezza del caso, mi aveva fatto la sua raccomandazione per l’eutanasia, sapevo quindi di avere quella possibilità, quella mattina però scelsi di chiamare chi potesse non solo preparami all’evoluzione degli eventi, ma qualcuno in grado di aiutarmi ad essere presente e consapevole, che potesse guidare me a sostenere lui nel momento più difficile, qualcuno capace di ricordarmi di aver sempre scelto di avere fiducia in lui.
La situazione faceva pensare a qualche giorno di assistenza al lento deperimento e progressiva perdita di funzionalità e mi sentivo preparata.
Con mio grande stupore però verso l’ora di pranzo si tira seduto e tenta di alzarsi, così aiutandolo e sostenendolo cammina fino al terrazzo, si ferma, si accascia, si blocca. Metto la mia mano sul suo cuore ma il torace non si gonfia, mantengo il mio sguardo sui suoi occhi e in un momento preciso, esatto, definito, ho sentito che lui stava già vivendo dentro di me. Era tutto dentro di me.
Quattro spasmi. Ciao.

“Ragazzi devo andare”. Si è alzato e se n’è andato.
Andare è sempre stata l’unica cosa che lo abbia mai interessato. Camminare. Non ho mai mancato alla promessa delle due passeggiate giornaliere, perché sapevo che fondamentalmente non aveva mai smesso di essere un randagio, così come io non potò mai smettere di essere una nomade.

In teoria la cosa migliore è sempre seppellirli nella terra direttamente, eppure avevo già deciso che lo avrei seppellito in un sacco di yuta. Ho sentito il bisogno di ritualizzare, ho sentito il bisogno di avvolgerlo nell’affidarlo alla terra, e mi sono presa il tempo di cucire quel sacco, con calma e con cura, con tutta la cura e l’amorevolezza di cui sono stata capace.
Grazie, grazie. L’unica parola che avevo in mente. Per tutto il tempo necessario per seppellirlo. Ogni gesto finché non è rimasto solo un mucchio di terra smossa nel giardino, è stato impregnato di una gratitudine mai provata prima.
Gratitudine per la bellezza di quel momento, che sembra assurdo dire, vorrei poter rivivere, perché è durato solo un attimo, e per quel prezioso attimo ringrazio di essere stata totalmente presente. E ringrazio che anche lui fosse presente perché questo ci ha permesso di costruire insieme anche quel momento. Non si è trattato di essere testimone, ma di partecipare, stare nella relazione per poter accogliere quel suo ultimo salto. La morte è un evento in cui la vita si manifesta, nella sua natura, essenziale e sacra, ed essere partecipe è stato un privilegio. Un dono.

Le sue cose sono diventate immediatamente inutili, quindi facili da gestire, da eliminare. Tutte tranne l’asciugamano in cui è spirato, il panno che ha assorbito i suoi ultimi umori. È rimasto lì, in un angolo del terrazzo. Era l’unica cosa in cui ho continuato a sentire la sua piena presenza, è stato difficilissimo liberarne. Avrei voluto mangiarlo. Quell’asciugamano raccoglieva e custodiva la sua essenza e io avrei voluto farlo a pezzettini e mangiarlo, come un’eucarestia. Per quel “ti mangerei” che proviamo per chi amiamo visceralmente, il desiderio di incarnare l’altro, di esserne posseduto, o forse solo per la resistenza a lasciar andare il suo corpo.

La prima scelta che ho fatto è stata quella di prendere un cane, la seconda è stata quella di fidarmi di lui. Sono state moltissime le decisioni che sono stata chiamata a prendere, per lui, per me, per noi, ma sono felice di non aver mai tradito quella fiducia reciproca quel il filo d’oro che ha tessuto la nostra relazione, nella quale abbiamo fatto entrambi del nostro meglio, ci siamo amati tanto e siamo stati ricompensati con la felicità.