Fixed Action Patterns
Alessandra Monti e Frank Metzger

Gli etologi ipotizzavano che molti dei comportamenti espressi in una specie animale, proprio perché fissi nella loro forma fin dalla loro prima comparsa ed espressi anche in assenza di particolari esperienze, fossero già scritti nel patrimonio genetico della specie, e avessero quindi una forte base innata.
I comportamentisti, con l’analisi dei condizionamenti, propendevano per una visione del comportamento inteso come frutto di un’esperienza acquisita e quindi plasmato da forme di apprendimento.
Oggi sappiamo che il comportamento è frutto di una continua interazione fra fattori innati e appresi.
Le sequenze stereotipate di movimenti sono chiamate oggi moduli fissi di attività o schemi fissi d’azione (fixed action pattern o FAP).
La meccanicità per cui questo comportamento, una volta innescato, deve svolgersi e completarsi è un tratto peculiare dei moduli fissi di attività che risultano essere attività pre-programmate di “pronto uso” per l’animale, ogni volta che si presenta l’occasione scatenante. Se viene impedito al cane di esprimerli e completarli, il cane andrà in frustrazione.

Il comportamento si profila come un insieme di componenti:
lo stimolo, detto anche stimolo-chiave, che scatena una certa risposta innata e un meccanismo scatenante innato (motivazione) che permette all’animale di rispondere con il comportamento appropriato allo stimolo esterno.
Ora che vi ho riassunto in breve tutto questo, la sensazione che mi resta, in base alla mia esperienza, è che, se pur molto interessante, qualche cosa di sostanziale sfugga.

Il cane è un essere senziente con una personalità che si esprime attraverso intenti, istinti, emozioni e comportamenti, ma è attraverso le emozioni (corpo emozionale o astrale) che i cani entrano principalmente in risonanza con noi.
Studiare i comportamenti espressi da un cane, valutando solamente il cane, ovvero senza considerare il compagno umano di riferimento, significa farsi un quadro decisamente parziale.

Joseph Maréchal (filosofo e psicologo) diceva:
Il metodo scientifico – a partire da un punto di vista strettamente agnostico e pragmatico – è quindi di per se stesso incompleto e insufficiente; per poter prendere contatto con la realtà, esso richiede il suo completamento della metafisica.

Ora, per provare ad andare oltre e conquistare un altro pezzo del quadro, condivido alcune intuizioni di  Frank Metzger…

A me, osservatore profano (non sono addestratore, né veterinario, in alcun modo professionista del settore) appare evidente che vi sono comportamenti che il cane acquisisce ed altri che ha innati. Anche se questi ultimi vengono definiti preimpostati “fixed” mi piace pensare che non vi sia nulla di immutabile. Certo questo tipi di comportamenti sono più difficili da modificare perché fissati in profondità non solo nel singolo animale, ma in tutta la sua specie, da generazioni e generazioni, ed un mutamento degli stessi richiede un lavoro capace di scendere molto nel profondo, fino a modificare il modo in cui il cane identifica sé stesso.
Vorrei oggi scrivere non dei cani in generale, ma specificatamente del comportamento dei cani che vivono in relazione stretta con un umano, ed intendo un umano specifico, di cosa vedo accadere nella relazione cane-umano, un cane specifico con un umano specifico.
Il fatto sorprendente che percepisco in questo tipo di relazione è che il cane modifica radicalmente il modo in cui percepisce sé stesso, non individuo separato, bensì, in un qual modo, emanazione dell’umano suo compagno. Il cane non si percepisce più individuo separato dall’umano, ma parte di un essere più complesso formato dall’interazione dei due. Esso è lieto di essere parte di questo metà individuo e prova appagamento esclusivamente nel riuscire a svolgere la propria parte in questo sodalizio.
Restano attivi gli istinti primordiali, ma esso tende a percepire sempre meno desideri propri, provando sempre più soddisfazione nel percepire la soddisfazione nella sua controparte umana, esso sta bene se il suo umano sta bene.
Da qui ne deriva automaticamente che, in una relazione del genere, è molto probabile che, in caso di disturbi del comportamento del cane, da curare sia il suo umano di riferimento. Il cane non fa altro che somatizzare il disagio del metà individuo, in cui la componente umana è quella che più detta l’umore.
Tutto questo mi è apparso chiaro lavorando con la proprietaria di un cane lupo cecoslovacco che lamentava il continuo sforzo del cane di attirare l’attenzione e di volersi vedere rispettato. E’stato per me molto curioso sintonizzarmi col cane e sentire proprio ciò di cui ho appena scritto: esso non si curava affatto di sé, esso avrebbe trovato pace solo nel momento in cui la sua controparte umana si fosse eretta. Sentii chiaramente che ciò che, più di ogni altra cosa, avrebbe reso il cane felice sarebbe stato poter camminare al fianco della sua umana eretta nella propria fierezza, che con sguardo sicuro lo conduceva. Il benessere di quel cane non dipendeva da ciò che la sua umana avrebbe fatto ad esso, ma da come lei avrebbe rivendicato la propria fierezza ed autostima. Era come se dicesse: “Non importa se io sono un cane lupo, tu devi essere capace di camminare nel mondo come io cammino”.
In una certa misura il cane non vive più solo nell’io, ma anche nel noi.

Non dobbiamo per questo provare un senso di colpa verso i nostri cani, ma anzi onorare il lavoro che svolgono, ovvero “indossare” qualcosa di nostro per provare a mostrarcelo.